Essays 2008 -

Index

1. 1 Valerio Dehò, articolo published in “Artkey” no. 4, 2008, Italian original

2.1 Massimo Guastella, presentation of the group exhibition “Confrontations on painting”, 2008, Italian original

 2.2 Massimo Guastella, English translation

3.1 Lorella Giudici, presentation of the group exhibition “The Butterfly and the ant”, 2008, Italian original

 3.2 Lorella Giudici, English translation
4.1 Cynthia Penna, presentation of the group exhibition “Signs of memory”, 2008, Italian original

 4.2 Cynthia Penna, English translation

5.1 Cynthia Penna, presentation of the exhibition “Signes…Coleurs”, Ambasade du Tourisme, Saint-Tropez, 2008, Italian original

 5.2 Cynthia Penna, English translation

6.1 Paolo Donini, presentation of the group exhibition “Love” at the Palazzo Ducale of Pavullo nel Frignano, 2008, Italian original

 6. 2 Paolo Donini, English translation




1.1 Valerio Dehò, articolo col titolo “Astrazione Biodinamica” pubblicato nel “Artkey” n. 4, aprile-maggio 2008, e sul sito web di Teknemedia (2008)

Astrazione biodinamica
di Valerio Dehò

Astrazione biodinamica

di Valerio Deho’

I movimenti all’interno dell’arte attuale tendono ad una certa schizofrenia e soffrono non soltanto d’improvvise dimenticanze, quanto anche di improvvisi e, apparentemente immotivati, ritorni. Purtroppo l’arte ha mutuato dalla moda un certo cambiamento obbligatorio quanto periodico, nell'attesa di mainstream, la tendenza generale va verso una contemporaneità di stilemi oltre che di tecniche. Possiamo dire che viviamo un’eterna contemporaneità che globalizza il tempo come lo spazio: l’originalità non è compatibile con l’assenza di cronologia. Nei giovani artisti protagonisti del presente, non si pone alcun’attenzione a quello che è avvenuto nel passato. Questa rimozione è sistemica, per questo non si nota. Si può essere nuovi, paradossalmente rifacendo ciò che è stato fatto. Se si torna a dipingere, per fare un esempio, in modo astratto, non si fa nessuna verifica su chi possa aver fatto qualcosa di simile negli anni/decenni precedenti.
Si diceva che “se non si conoscono le origini, è facile diventare originali”. Ma questo è completamente inattuale. Il problema è procedurale: essere o non essere accettati dal sistema dell’arte. Chi vive l’eterno presente di un’arte che non ha tempo né memoria, non si cura delle relazioni temporali, né si pone il problema di un diritto all’originalità. Il melting pot è inevitabile come l’aggiornamento di un software. Il tempo è collassato e non tornerà più a distendersi, del resto non è forse vero che gli orologi sono di forma circolare?
Invece per gli artisti della generazione precedente i problemi linguistici sono noti: la differenza astratto/figurativo, la ricerca di una personalità propria che globalizzi i linguaggi ma si confronti con il tempo. Anche l’idea di traduzione, dare in altre parole una deriva positiva all’arte attraverso lo spostamento dell’area semantica che può essere anche un mutamento sottile, appartiene alla generazione che si affermata dopo la metà degli anni ottanta e che ha cercato una terza via tra il ritorno alla pittura e il rimanere in un’area concettuale con lo spirito della pittura. In una prospettiva angolare di questo tipo cosa sta accadendo? Uno dei fenomeni sicuramente da registrare, riguarda la completa affermazione della pittura come territorio ormai universale dell’esperienza estetica. Ma non solo la figurazione, l’arte astratta si vede sempre più spesso nelle gallerie e anche nelle forme non consuete della pittura, ma anche della video arte o della Public art. Quello che probabilmente si sta avvertendo e sta diventando un fenomeno vasto e internazionale, è che la figurazione ha saturato completamente gli spazi della comunicazione artistica e ormai è stata celebrata in tutte le forme e possibilità.
Una reazione. Probabilmente si manifesta nel ritorno all’astratto una tendenza a cercare di prosciugare l’immagine dagli eccessi, dai contorcimenti eccessivi, dai colori invadenti. È una specie di desiderio di tranquillità e di riposo. Una fuga verso l’essenzialità delle forme, verso una razionalità che è ordine e quindi momento di piacere, ma anche d’analisi. La figurazione è invasiva. Abbiamo di fronte giornali, televisione, siti internet: tutto cerca di attrarre la nostra attenzione nei modi più coinvolgenti e totalizzanti. E certamente la figura umana ha una forza attrattiva immediata. Così scopriamo che i cinesi fanno una pittura e una fotografia molto simili alle nostre (tanto che sembrano dei cloni), che gli africani (tranne le etnie zulù) riempiono d’immagini umane, anomalie paesaggio ogni supporto che riescono a trovare; del mondo occidentale neanche a parlarne perché nella sfera delle immagini figurali ci si perde da decenni, almeno dagli anni ottanta. Invece la forza dell’astrazione consiste proprio nel fascino obliquo della sua energia interna: mistero della forma che nasce, mistero del colore che diventa protagonista assoluto anche nella sua completa assenza, mistero di un rigore che appartiene alla logica del pensiero, ma anche a quel senso dell’ordine che forse abbiamo imparato a ri/conoscere dopo Warburg e Gombrich. La geometrizzazione del Mondo è uno scarto positivo di conoscenza, riempiendo di segni e di linee inutili la pelle della Terra.
Questo è un altro punto. Il desiderio di un ritorno a una frugalità dell’immagine ha un senso non perché porti a una certa nostalgia, ma perché parla del presente. Per questo l’astrazione di cui stiamo parlando ha una sua referenzialità precisa in alcuni lavori, mentre in altri è un’idea schematica, un principio d’ordine alla cui base vi sono invece degli elementi figurativi. Vi è una forma d’astrazione che prescinde dagli elementi che la compongono, le linee o i cerchi, e s’istituisce sulla gestalt, sulla forma in generale come appare, prima ancora di qualsiasi sua analisi. A questo “ordine costruito dall’immaginazione” dobbiamo l’unione del pensiero astratto con la sensibilità immediata, il piacere del guardare con la razionalità del linguaggio.
Per questo ci sono dei lavori in cui l’elemento figurale ha il senso di un atomo costituente, di un pixel o in ogni modo di qualcosa che è alla base di un motivo che possiede un suo sviluppo logico. Vi è pertanto un’idea del decoro, di una sorta d’astrazione che parte dalla realtà, ma la proietta all’interno di uno spazio che tende a superare i confini dell’arte e si riversa direttamente nella vita. La decorazione ha fatto sì che da un’immagine figurativa, come poteva essere la rappresentazione di una palma, questa si trasformava, per successive stilizzazioni, in qualcosa d’astratto in cui il punto di partenza diventava completamente irriconoscibile. In pratica quello che è accaduto e sta accadendo e che, non solo vi è un ritorno dell’astrazione come scelta drastica di rifiuto dell’arte figurativa, ma anche come esigenza d’ordine. Da questo punto di vista la decorazione mette assieme questi due aspetti.
L’esigenza quindi è soprattutto psicologica, ma anche dettata da un rifiuto degli eccessi della comunicazione iconica. L’iconoclastia latente, che soggiace al fenomeno che stiamo descrivendo, è anche il tentativo di isolare l’arte dalle sue imitazioni commerciali, dai suoi mille surrogati mediali. Sappiamo che la comunicazione è tutto, ce lo hanno detto in molti, ma non ci hanno insegnato a difenderci, a sottrarci alla rete di trabocchetti e seduzioni. Viviamo dentro un mondo d’icone, non ci viene nemmeno in testa che se ne possa fare a meno. Allora la rinuncia a questo mondo sembra essere una forma d’ammutinamento. Ci viene richiesto di ubbidire e noi lo facciamo.
La facile fascinazione della figura, della forma umana, o della casa o degli elementi della Natura che ci coinvolgono in modo ovvio e scontato, lasciano il passo a delle opere d’arte che ci sorprendono per la loro bella semplicità. Non si tratta di abbandonare il mondo delle figure, ma si tratta di portarlo su di un piano di calma visiva e di silenzio ottico. E tra i precursori di questa tendenza vi è un artista indifferente alle alternative radicali, ma profondamente cosciente di elaborare un proprio linguaggio che non sia allineato nella finta alternativa tra post concettuale e pittura tipica degli anni novanta. Peter Kogler sostiene un’idea d’astrazione di tipo post mediale in cui si percepisce la ricerca di una linea di confine tra ciò che è organico e ciò che non lo è, tra ordine e caos, tra bi e tridimensionalità. Sia negli infiniti reticoli di cavi in prevalenza rossi e blu, come le arterie e le vene nelle rappresentazioni anatomiche, sia in lavori recentissimi come quello presentato l’anno scorso da Base a Firenze, in cui erano sovrapposte le linee rosse e verdi che delineavano un cervello e una mappa del mondo, Kogler lavora sull’impossibilità della percezione senza inganni e fallacie. La sua astrazione biodinamica ha sollecitazioni neo barocche che scavalcano la realtà a favore della meraviglia. Ma non si tratta di uno spettacolo quanto piuttosto di essere messi di fronte a un’iperbole anatomica, a un priapismo visivo in cui la biologia diventa metafora dell’arte e fotografia di una decorazione liberata dalla sua ausiliarità. Inoltre i suoi lavori hanno spesso le dimensioni di un labirinto, sono installazioni in cui il punto di partenza e di arrivo sono indefiniti. La presenza non invasiva dei segni crea una differenza tra il vedere e il percepire, tra la geometrizzazione dello spazio e la sua totale saturazione. Il suo è un modo di operarare che annulla la distinzione tra astratto e figurativo perchè la rende fuori luogo e fuori tempo.
Un altro artista molto vicino a questo modo di intendere l’arte e la pittura in particolare, è Nicola Troilo.
L´elemento biologico sostiene il concetto di un´ossessione creatrice che però non è mai soluzione spontanea e occasionale. Se per Troilo l´antropomorfismo è conseguenza di una modularità, questo va inscritto in un rigore che fa della coordinata temporale un elemento necessario da considerare. Non a caso negli anni novanta praticava una pittura che già delineava una riappropriazione concettuale di alcuni temi tra art autre e tachisme, cercando nel contempo di dare corpo e visione ad accenni di figurazione che dessero un segnale positivo rispetto a un’arte aniconica eccessivamente fredda e involuta. Il suo istinto verso una pittura fortemente connotata da elementi dinamici, biologici, comunque manifestava una forte spinta di energia e vitalità. Per lui dipingere è un gesto continuato che non si può risolvere nell’istante, ma deve dare sempre conto di una storia, di uno sviluppo, di un confronto tra la genetica della pittura e la sua adattabilità agli spazi fisici e mentali che comunque ne caratterizzano le direzioni di spostamento. L´emergenza di un tema figurale ricorrente ha determinato uno spostamento verso una zona contemporanea poco frequentata ma straordinaria, in cui elementi fondamentali come la composizione, sono diventati il motore di una pittura assolutamente personale. Troilo ha saputo anche resistere alla fissità del modulo, alla struttura prefissata che, in una concezione costruttiva, diventa il vero oggetto estetico. Nessuna parabola di tipo scientista gli può stare bene, è un artista che non risente delle mode del momento e nemmeno delle suggestioni di cercare il nuovo a ogni costo, anche nelle metafore parascientifiche. Infatti le sue unità viventi, sembrano vivere più una simbiosi interna che una sorta di programmazione algoritmica.
Nicola Troilo crea un profondo piazzamento tra figurazione e astrazione con una pittura che è un enorme arabesco con forti capacità visionarie. Le sue figure umane si moltiplicano all’infinito e creano forme ornamentali, ghirlande figurative che sembrano motivi decorativi. Il suo è un lavoro che come quello di Kogler punta alla meraviglia, in quanto condizione attraverso cui lo spettatore coglie il contesto compositivo rigorosissimo. La sua pittura è estremamente personale e originale rispetto ad altre esperienze contemporanee, la sua visionarietà minimalista lo colloca in una particolare posizione della pittura che apre alla non figurazione, collocandosi in una zona di confine.
L’astrazione è vista allora come una sintesi tra ordine e immaginazione: forse un territorio neutro, ma fino a un certo punto. Un territorio in cui avviene uno scontro fortissimo senza eserciti, ma è certo che al rumore viene preferito il silenzio. Nessuna televisione mai potrà trasmettere qualcosa di astratto. È un paradosso, è un divertissement, ma provate a immagine che quando si accendono dei canali satellitari, invece di essere bombardati da signore finto bionde che cucinano o da brandelli umani gettati come fagotti nella polvere di Bagdad, ci facessero vedere delle righe o delle immagini fantastiche al secolo, elementari animazioni flash, come nel sito tokyo-abstraction, che si compongono sotto i nostri occhi. Geometrie magari anche in bianco e nero, in cui le infinite combinazioni possibili si aprono ai nostri occhi come fossero un viaggio incredibile ai confini della visione. Alla fine questo stupore deriva probabilmente proprio dal fatto che non lo sapevano, che non abbiamo immaginato che potesse essere così. Con poco poi. Perché con degli elementi cromatici o con dei segni così semplici (croci, angoli, elementi minimali) si riescono a costruire mondi inimmaginabili.
Altra protagonista di questa astrazione biodinamica è Jorunn Monrad che opera in prevalenza con la pittura come Troilo, ma ha anche realizzato lavori più strettamente legati a un’idea decorativa quali piastrelle, rivestimenti e altro.
Il suo punto di partenza sembra consistere nel vivificare la superficie pittorica di sottili e un po’ perversi animaletti che hanno lontane parentele con certi segni semplificati di un Haring, ma che vogliono significare qualcosa di diverso. Jorunn Monrad non ha mai cercato un simbolo, un “radiant baby” che illumini l’universo giovanile. La sua ossessione di riempire tutta la superficie che ha a disposizione, l’ha condotta da un lato a una ricerca di colore precisa legata spesso alla complementarietà, dall’altro a dar vita, pressoché in senso letterale, a una sorta di invasione di ultracorpi da parte della pittura. Quello che si avverte è un brulicare incessante di qualcosa che non è certo orribile per sua forma, ma che è imbarazzante per continuità e diffusione. Vermi, larve, virus, la Monrad mette in scena una contaminazione con un lavoro lento e preciso di tessitura formale lenta e sinuosa, all’interno della quale vivono i suoi esserini. Ma poi una lettura più approfondita fa emergere che quella trama è in effetti costituita proprio dai corpi di quelle larve che vediamo quasi “sorridere” all’interno dell’opera. È la loro invasità che satura la tela. Ha detto bene Tommaso Trini parlando di “linee rettili” perché questo universo mobile è fittamente denso e popolato, ma ha nello steso tempo staticità e movimento, vuoto e pienezza.
Quello che è successo dopo è che l’artista ha elaborato un piano diverso. Far ricoprire ai suoi esserini delle parole, delle frasi. Sembra di capire che il discorso si allarghi dalla constatazione dell’esistenza di tali creature filiformi, al fatto che queste divorano tutto quello su cui si poggiano, anche i fondamenti della nostra cultura e lo stesso linguaggio. Scrittura e pittura praticamente diventano la stessa cosa ed entrambe costituiscono una possibilità di espansione infinita attraverso le potenzialità di una monadologia visiva. Nei suoi lavori Monrad, se da un lato procede nell’esibire l’evidenza di una viralità insita nell’arte (tutto brulica, si divora, si accresce, si riproduce), dall’altro introduce il paradigma del linguaggio come frontiera non invalicabile, anche come limite che le arti figurative possono conquistare attraverso questi organismi invadenti e ossessivi, simpaticamente perversi. All’interno di un modo di dipingere tonale e colto, la Monrad ha saputo superare certe istanze maturate negli anni ottanta, non rinunciando alla ricerca di un’estrema sintesi che spiazzi ogni giudizio. Nella sua arte confluiscono le esigenze di una pittura pura, pittura-pittura come si diceva negli anni sessanta, e nello stesso tempo vi è l’apertura verso una figurazione ricorsiva e astratta, verso un concetto di segno ampio anche nella sua accezione linguistico-verbale.
In questi artisti si avvverte un’attenzione per il movimento, per il segno, per una connotazione che porta a risultati estetici affascinanti, che riconduce la bellezza, eterna e sempre negata, alla sua semplicità. Non si tratta di abbandonare il mondo delle figure, ma si tratta di portarlo su un piano di calma visiva e di silenzio ottico. Il corpo, i corpi, il materiale biologico assumono le ambiguità di un segno arabescante che è continuo perché infinito. Vi è ordine e rigore, ma nello stesso tempo le geometrie non fermano il flusso, anzi lo accentuano in un ritmo biodinamico. La simbiosi tra vita e pittura appare perfetta proprio perché l’incontro avviene sul terreno della semiosi, dell’infinita possibilità di traduzione del linguaggio in biologia e viceversa.



2.1 Massimo Guastella, presentazione della collettiva “Confronti sulla pittura”, tenuta a Savelletri di Fasano, pubblicato nel catalogo della mostra, 2008


Non è mia intenzione indagare, in questo scritto introduttivo, sulla vicenda artistica contemporanea nei suoi sviluppi recenti. (…) Per questa occasione aggiungerò solo che, come riscontrato in svariate proposte espositive di fresca data, il mezzo espressivo pittorico resta aspetto consolidato dalla cultura artistica, la pittura “via regina delle arti visive” per dirla con Renato Barilli. (…) Ben oltre la dicotomia tra filone figurativo o percorso astratto, immagine o segno, iconico o aniconico, la pittura mantiene la sua forza espressiva, la sua vivacità estetica, il suo coinvolgimento emozionale nella stesura di un colore, nel tratto di una linea, nel disporsi di una forma, nel ritmo compositivo, nell'identificazione mimetica, nell'addensarti della materia. L'artiste-pittore oggi sperimenta nuove tecniche, si dedicata a rinnovate poetiche, fissando sulle superfici idee che interpretano lo spirito del tempo. (…) La matrice segnica caratterizza le ricerche della norvegese Jorunn Monrad, autrice di grovigli “ipnotici” (…) La presente mostra costituisce, dunque, un ulteriore tassello dell'ampia ricognizione sulle realtà pittoriche, non solo italiane, finalizzata a fare il punto della situazione nell'evolversi delle ricerche pittoriche sul finire del primo decennio del ventesimo secolo e non di meno risponde all'interrogativo sul senso e sul valore della pittura nella nostra epoca, un modo di fare arte che inequivocabilmente ancora affascina.


2.2 Massimo Guastella, presentation of the group exhibition “Confrontations on painting” held in Savelletri di Fasano, published in the relative catalogue, 2008

It is not my intention, in this introductory text, to analyze the contemporary artistic vicissitude in its recent developments. (...) On this occasion I will only add that, as one may ascertain from various recent exhibition proposals, the pictorial means of expression remains a consolidated aspect of the artistic culture. Painting as “queen path of the visual arts” to quote Renato Barilli. (…) Well beyond the dichotomy between the figurative genre or abstract itinerary, image or sign, iconic or aniconic, painting retains its expressive force, its aesthetic vivacity, its emotional involvement in the laying of a colour, in the rendition of a line, in the arrangement of a form, in the compositive rhythm, in mimetic identification, in the densification of the matter. The artist-painter today experiments with new techniques, dedicates himself to new poetics, immortalizing ideas on the surface which interpret the spirit of the time. (...)
The signic matrix characterizes the researches of Norwegian Jorunn Monrad, author of “hypnotic” tangles (…) This exhibition therefore represents a further element of the ample recognition of the pictorial realities, not only Italian, aimed at taking stock of the situation as to the evolution of pictorial research towards the end of the first decade of the Twenty-first century, and it is equally significant as a reply to the questioning of the meaning and value of painting in our period, a way to do art which undoubtedly still fascinates.


3.1 Lorella Giudici, presentazione della collettiva “La Farfalla e la formica” pubblicato nel catalogo della mostra, 2008


E' una società in cui non conta il singolo, ma la collettività: dove non importa la bellezza, ma l'efficienza. Anche se nel disegno ciascuna presenta delle impercettibili differenze, nella sequenza esse si annullano a favore della regolarità spaziale, della linearità delle zampe e della disciplina dell'insieme. Essere è meglio di apparire (strano a dirsi oggi!). Dove stiano andando non è dato sapere, ma di certo non è un vagare senza meta. Come un esercito ben organizzato, esse hanno sicuramente una missione da compiere, un luogo da espugnare, un bottino da sequestrare. Non si perdono, non si riposano, le distanze non contano. La loro ostinazione è encomiabile: nulla la ferma, nemmeno una strage. Raccattano i loro morti e senza tante celebrazioni proseguono il loro frenetico lavoro. A guardarle dall'altro, sembrano lo specchio di tutto il mondo industrializzato, proprio come i brulicanti e ipnotici formicai di Jorunn Monrad, che per l'alta concentrazione numerica disorientano e inquietano o come le formiche di Maggi in P@sso a p@sso, 2006. Eppure, a guardarle invece nell'animo, quelle piccole creature sono più simile a certe stirpi d'oriente (nel caso della Monrad occorre anche parlare di assonanze primordiali e alchemiche).


3.2 Lorella Giudici, presentation of the group exhibition “The Butterfly and the ant” published in the exhibition catalogue, 2008

It is a society in which the community, and not the individual, counts; where efficiency, and not beauty, is important. Even if everyone features imperceptible differences in the drawing, they are cancelled in the sequence in favour of the spatial regularity, of the linearity of the paws and the discipline of the aggregate. Being is better than appearing (strange as it may sound today!). Where they are going is impossible to tell, but it is certainly not a matter of aimless wandering. Like a well-organized army, they certainly have a mission to carry out, a place to capture, a booty to seize. They do not forgive, they do not rest, the distances do not matter. Their obstinacy is laudable: nothing stops it, not even a massacre. They collect their dead and continue their frenetic work without more ado. Watching them from above, they appear like the mirror of the entire industrialized world, precisely like the swarming and hypnotic anthills of Jorunn Monrad which, by virtue of the high numeric concentration, disorient and unsettle, or like Maggi's ants in P@sso a p@sso, 2006. Yet, if we explore their soul, those tiny creatures are more similar to certain Eastern races (in the case of Monrad we must also speak of primordial and alchemic assonances).




4.1 Cynthia Penna, presentazione della mostra “Segni di memoria” con Jorunn Monrad ed altri cinque artisti, presentata alla Maison des Arts, Carces (Provenza) 2008

Segni dalla memoria

di Cynthia Penna Simonelli

L'ideogramma è la sintesi tra segno e significato; il segno “assomiglia” alla cosa identificata ….. ( Bruno Munari)

I sei artisti che andiamo a presentare appartengono alla nuova, ma affermata, generazione di italiani che si esprimono attraverso una matrice segnica.
Ma il loro senso del racconto non si scinde da un senso del colore connaturato alla nostra anima e alla tradizione coloristica italiana che affonda le sue radici nell'antichità' romana e passa attraverso Giotto e il Rinascimento. Una solarità del colore e una temerarietà di accostamenti cromatici che rappresenta l'appartenenza ad un'arte mediterranea che tutto include e nulla esclude.
Perciò segno e colore diventano per i nostri un tutt'uno quasi inscindibile : una espressione artistica che è anche e soprattutto espressione di una radice comune , di un sentimento, e, in fin dei conti di un'anima o “dell'anima” italiana.
Per questa mostra si è pensato di dividere le espressioni segniche dei sei artisti in due categorie che rappresentano non solo due generi artistici all'interno del tema “segno”, ma anche due entità di rappresentazione delle proprie interiorità.
Da un lato il segno appare come evocazione di miti ancestrali e di tradizioni culturali tramandate nel corso dei secoli : i miti di ogni tempo, da quelli greci al mito della caverna di Platone. Una favola epica che si esteriorizza con un senso di primitiva purezza. Un ritorno alle proprie radici ancestrali che sono poi i miti dell'intera umanità:il viaggio, la ricerca, la tragedia, il riscatto, la conoscenza di se del mondo.

Dall'altro il segno appare piuttosto come un disvelamento del sé interiore del singolo artista, del suo personale percorso culturale e psicologico che affonda le sue radici in una ricerca dell'Io in chiave quasi psicoanalitica. Questo “segno” è perciò più intimista e personale.
Ma il linguaggio attraverso cui entrambe le categorie si esprimono e'un linguaggio universale procheila segno e' indubbiamente e imprescindibilmente la prima forma di comunicazione dell'uomo il quale, oltre che con la parola, fin dai primordi, ha cercato di lasciare una testimonianza del suo passaggio e del suo percorso di conoscenza : il segno, ovvero l'incisione di una forma di scrittura sulla roccia o su qualsiasi supporto che gli permettesse di ottenere una base di indelebilità' del suo messaggio, tale da garantirgli quasi, in un certo senso, una forma di immortalità.
Perciò il segno diventa nella psiche umana, al pari dell'istinto alla riproduzione, un mezzo di comunicazione e non solo, ma anche e soprattutto un mezzo di incidere sulla continuazione della specie, un mezzo di sopravvivenza della specie che travalica il tempo finito per accedere ad una qualche forma di infinitezza.
In Sergio Fermariello e in Gian Antonio Golin troviamo il retaggio dei nostri miti ancestrali, dei nostri progenitori: uno scavo nelle radici della nostra storia che, passando attraverso la Grecia antica e Roma si dipana verso un universalismo di miti e di mostri che l'uomo si porta dietro fin dai primordi.

E così troviamo la serie dei guerrieri di Fermariello tutti apparentemente uguali e ripetuti all'infinito, archetipi di eroi più che di guerrieri.
Una sorta di graffiti rupestri che rimandano a quelli del deserto del Sahara e giungono fino a Keith Haring.
E' la storia infinita dell'uomo alla ricerca della conoscenza che è sostanzialmente una perenne lotta tra forze opposte, tra bene e male, tra ottusità e disvelamento.

Le sue opere sono pervase da una atmosfera primordiale, ancestrale: l'uomo di fronte alle problematiche irrisolte del suo inconscio.
Il mito è anche favola epica, leggenda, e questo ci rimanda alle opere di Gian Antonio Golin imperniate sul mito di Medea e sul tema del viaggio.
Il mito di Medea è sempre e da sempre attuale inteso come dilemma di scelta e di autodeterminazione: capacità di scegliere liberamente e senza riserve oppure con condizionamenti e arrangiamenti. Il grande dilemma umano tra libero arbitrio e libertà vera dove lo spartiacque tra bene e male è dato solo dalla Dignità.
In Golin il segno diventa però anche un modo di intraprendere un viaggio: viaggio di conoscenza di se stessi e dell'universo. Il suo è un ritorno agli albori del rito; una ritualità con accenti di magia intesa come conoscenza consapevole: una ritualità che purifica e invade l'anima di mistero, di grazia e di spiritualità.

Nei tre artisti seguenti il segno diventa più “intimista” e teso alla ricerca di un sé individuale che affonda le proprie radici in una chiave di lettura quasi psicoanalitica:
in Baricchi e Borrelli abbiamo il tema del “bambino” che è in tutti noi; il “fanciullino” di pascoliana memoria o la reminiscenza dada. I giocattoli, i pupazzi, le favole sono retaggio personale e nel contempo universale; modo per sognare, modo per riappropriarsi di un'innocenza perduta; anche questo un mezzo di sopravvivenza dell'uomo e una ricerca di interiorità trascurata.
Il bambino che si trova davanti difficoltà della vita che gli appaiono ingarbugliate e insormontabili,grovigli inestricabili e giganteschi in cui affondare o affogare, trova però sempre una solida via di fuga in se stesso, un modo per uscirne attraverso maturazione e conoscenza .
In Monrad si evidenzia una sorta di stratificazioni segniche che rispecchiano una sovrapposizione di emozioni.

Dalle parole di Jorunn Monrad:
« I miei lavori sono radicati in un immaginario della mia infanzia: i serpenti delle incisioni lignee dell'arte vichinga e medievale norvegese, le forme che si creavano nella natura, tipo rami, nuvole. Le fiabe, la natura misteriosa avrà anche fatto la sua parte.

Da tutto ciò ho ricavato una specie di modulo, che è una sorta di forma biomorfa, più che un animale in particolare, che è solo il mattone della struttura, ma che si moltiplica in forme vorticose e forse a volte inquietanti. L'idea è di creare una atmosfera sognante, movimentata, ma molto diversa dagli effetti op art, insomma un effetto meno sgargiante, più “naturale” ».
Il simbolismo di Soulé in termini di comunicazione segnica è tutto nascosto: è una sorta di comunicazione sottesa e mai palese. Essa viaggia su colori, su forme, su reticoli connettivi che legano e nello stesso tempo trascendono la realtà e la materialità; il contatto tra le esistenze non è mai percepibile in superficie, non ha necessità di essere esternato, ma piuttosto deve essere colto attraverso un legame più sottile e profondo.
Il “morfoschema” che sta alla base delle sue tele è una sorta di apparato scheletrico che sottende tutte le opere, ma, come per lo scheletro umano, non ha necessità di palesarsi esteriormente. Eppure costituisce la base di connessione delle esistenze, così come lo scheletro è il fondamento del corpo umano.
Le “figure” o piuttosto le essenze, presenti nella composizione pittorica, sembrano “fluttuare” spostandosi liberamente sulla tela; il segno diventa segnale codificato di comunicazione, disvelato solo a chi riesce a percepirne le chiavi di decodificazione.

In tutti comunque appare un'intenzione evocativa e onirica resa attraverso una incredibile palette che copre tutto lo spettro dei colori.
Così segno e colore si fondono in un linguaggio intenso e profondo teso al recupero delle proprie radici culturali e nel contempo ad una ricerca del sé che da intimista diventa universale.
Concludiamo perciò con le parole di Alberto Fiz che mai come ora ci appaiono appropriate e vere: “ la vera conoscenza può emergere dal recupero di una memoria stratificata e ancestrale ”.

Cynthia Penna Simonelli


4.2 Cynthia Penna, presentation of the exhibition “Signs of memory” with Jorunn Monrad and another five artists, presented at Maison des Arts, Carces (Provence), 2008

Signs from memory

by Cynthia Penna Simonelli

The ideogram is a synthesis between sign and meaning, the sign “resembles” the thing it identifies ….. (Bruno Munari)

The six artists we are presenting belong to the new but acclaimed generation of Italians who express themselves through a signic matrix.
But their sense for narrative is not separated from a sense for color, which is an intrinsic part of our spirit and of an Italian coloristic tradition that has reached us from Roman antiquity, via Giotto and Renaissance. A bright and sunny sense for color and for daredevil combinations of colors, that is an essential part of a Mediterranean art that includes everything and excludes nothing.
Sign and color therefore become an inseparable whole for our artists: an artistic expression that is also, and above all, an expression of a shared origin, a feeling and, in the final analysis, an Italian spirit, or “the” Italian spirit.

For this exhibition we have decided to distinguish the signic expression of the six artists into two categories that do not only represent two artistic genres within the “sign” theme, but also two ways to represent the artist's interiority.
On the one side the sign appears like an evocation of ancestral myths and cultural traditions that have been handed down for centuries: myths from every age, from ancient Greece to Plato's cavern. An epic fable that is exteriorized with a sense of primitive purity. A return to one's ancestral roots that are, after all, the myths of all mankind: travel, research, tragedy, redemption, knowledge of oneself, of the world. On the other hand, the sign rather appears like a revelation of the interior self of the individual artist, of a personal cultural and psychological itinerary that is inspired by a research of the I, in an almost psychoanalytical sense. This “sign” is therefore more intimist and personal.
But both categories express themselves with a universal language, because the sign is undoubtedly and inevitably the first form of communication of mankind; apart from the world, since the beginning of time Man has sought to leave a testimonial of his presence and his pursuit of knowledge: the sign, or in other words the engraving of a form of writing on rocks or any support that made it possible to trace an indelible message, in a certain sense almost guaranteeing him a form of immortality.
The sign therefore becomes, in the human psyche, not unlike the instinct of reproduction, a way to communicate and not only, but also and above all a way to leave a mark on the continuation of the species, a means of guaranteeing the survival of the species beyond finite time, to gain access to some form of infinity.
In Sergio Fermariello and Gian Antonio Golin we find the heritage of our ancestral myths, of our forefathers: an exploration of the roots of our history that, passing through ancient Greece and Rome , is unraveled towards a universalism of myths and monsters that has followed Man since the dawn of time.
And so we find Fermariello's series of warriors, all of them apparently identical and repeated infinitely, archetypes of heroes rather than of warriors. A kind of rock graffiti that evoke those found in the Sahara and that arrive all the way to Keith Haring.

It is the infinite history of Man's pursuit of knowledge, essentially an eternal battle between opposed forces, between good and evil, between obscurity and revelation.
His works are permeated by a primordial, ancestral atmospheres. Man in the face of the unresolved problems of his unconscious.
The myth is also epic fable, legend, and this brings us to the works of Gian Antonio Golin that center on the myth of Medea and the theme of the journey.

The myth of Medea is and has always been a burning issue, understood as dilemma of choice and self-determination: an ability to choose freely and without reservations, conditioning and arrangements. The great human dilemma between free choice and true freedom, where the divide between good and evil is only determined by Dignity.
However, in Golin the sign also becomes a way to interpret a journey: a journey of knowledge, of oneself and of the universe. His work explores the dawn of rite, of a rituality with magic accents understood as conscious knowledge: a rituality that purifies and invades the spirit of mystery, of grace and of spirituality.
In the other three artists the sign becomes more “intimist” and aimed at the research of an individual self, a research inspired by an almost psychoanalytical approach.
In Baricchi and Borrelli we find the theme of the “child” we all carry within; the “youngster” as evoked by Pascoli or Dadaism. Toys, dolls, fairy tales are a personal and yet universal heritage: a way to dream, to regain a lost innocence, also this a means of survival and a search for a neglected interiority.
The child that comes across life's problems, that seem complex and insurmountable to him, as inextricable and gigantic tangles in which to sink and drown, and who nevertheless always finds a path, a way to get out through maturity and knowledge.
Monrad's work reveals a kind of signic layering that mirrors a superimposition of emotions. As the artist herself puts it: “My works are rooted in an imagery from my infancy: the snakes of wooden sculptures of Viking and Medieval Norwegian art, forms created by nature, like branches and clouds. Fables and the mysterious nature have also played a part. I have defined a kind of module, a kind of biomorphic form, rather than a specific animal, that is merely the building brick of the structure, but which is multiplied in dizzying and sometimes unsettling forms. The idea is to create a dreamy, moving atmosphere”.
The symbolism of Soulé, in terms of signic communication, is hidden: it is an implied, never evident communication. It comes across in the colors, in the forms, in the connecting grids that bind yet transcend reality and materiality; the contact between the existences is never perceptible on the surface, it does not need to be expressed; rather, it must be captured through a more subtle and profound bond. The “morphoscheme” that represents the basis of his canvases is a kind of skeleton that supports his entire work, but as in the case of the human skeleton, it does not need to be expressed externally. Yet it is the basic connection for existences, just like the skeleton represents the foundation of the human body.
The “figures” or rather the essences, present in the pictorial composition, seem to “fluctuate”, moving freely on the canvas; the sign becomes a codified signal of communication, only revealing the key to their deciphering to those who manage to perceive them.
All these artists are in any case characterized by a pursuit of evocation, of dreaming, rendered through an incredible palette that covers the entire color spectrum.
Sign and color thus merge in an intense and profound language, aimed at recovering cultural roots, and at the same time a research of oneself that proceeds from intimist to universal.
We will therefore conclude with the words of Alberto Fiz who has never appeared more acute and accurate: “true knowledge can emerge from the recovery of a stratified and ancestral memory”.

Cynthia Penna Simonelli






5.1 Cynthia Penna, presentazione della mostra “Signes…Couleurs” con Jorunn Monrad e Bruno Gorgone, presentata al Ambasade du Tourisme, Saint-Tropez - 2008

SIGNES………COULEURS


Il segno e' la primitiva forma di rappresentazione e di comunicazione adoperata dall'uomo; perciò fin dai primordi l'uomo ha delegato al segno l'espressione non solo della realtà che lo circonda in quanto esperienza del reale, ma anche la manifestazione delle sue emozioni, della sua interiorità, dei suoi sogni, della sua memoria.
In questo contesto si inserisce l'esperienza pittorica dei due artisti italiani Bruno Gorgone e Jorunn Monrad.
Il primo, architetto e designer, dalla originaria formazione rigorosamente scientifica degli studi di architettura, si evolve poi verso una espressione artistica di impronta intimistica che si risolve in una vera e propria progettazione emozionale dell'opera.
La seconda, di origine norvegese, vive in Italia da circa 20 anni e qui ha svolto il suo percorso formativo presso l'Accademia di Brera a Milano, orientandosi verso un'astrazione segnica e simbolica che si esplicita in una sorta di tramatura della tela attraverso vari livelli di colore.
In entrambi il segno non e' solo puro grafismo, ma ad esso e' intrinseco e imprescindibilmente legato il colore che e' l'altro elemento significativo della loro espressività.
Perciò segno e colore, le due assi portanti della ricerca artistica, diventano anche il tema portante di questa mostra.

Dalle parole di Jorunn Monrad:
“I miei lavori sono radicati in un immaginario della mia infanzia : i serpenti delle incisioni lignee dell'arte vichinga e medievale norvegese, le forme che si creavano nella natura, tipo rami, nuvole, forme dei rami. Le fiabe, la natura misteriosa avrà anche fatto la sua parte. Ho anche fatto delle ricerche su fenomeni che scaturiscono dall'immaginario, si può dire biologico, in cui proprio le visioni di forme che si ripetono durante il dormiveglia, possono creare questo tipo di effetti visivi.
Da tutto ciò ho ricavato uno specie di modulo, che è una sorta di forma biomorfa, più che un animale in particolare, che è solo il mattone della struttura, ma che si moltiplica in forme vorticose e forse a volte inquietanti. L'idea è di creare una atmosfera sognante, movimentata, ma molto diversa dagli effetti op art, insomma un effetto meno sgargiante, più “naturale”. E noi non possiamo fare a meno di pensare che in queste tele si respira la stessa aria che pervade quelle del grande maestro indiano, americano di adozione, Natvar Bhavsar come Aarakh VIII e Aarakh IX del 2003.  
Per Gorgone la riproduzione di soggetti vagamente biomorfi non conduce a reminiscenze oniriche infantili, ma e' espressione di una progettualità prestata alla fantasia o viceversa: un modulo ripetuto, derivante da una progettazione, si può azzardare, quasi architettonica della “scena”, sulla quale si innesta la variabile “impazzita” dell'immaginazione resa attraverso un colore irreale e fantastico, di retaggio matissiano e di forza dirompente.
La composizione di Gorgone rimanda irrimediabilmente al segno/colore di matissiana memoria, del Matisse delle “gouaches decoupées” degli anni 1947/53, composizioni biomorfe fatte di segno e colore, ma anche a certe “invenzioni” del Balla futurista e floreale in cui vi e' più costruzione geometrica e sperimentazione coloristica, che ricerca di movimento.
Interessante e' sperimentare il rapporto spazio/luce nei due maestri: in entrambi lo spazio appare destrutturato e il rapporto con esso e' decontestualizzato in termini spazio/temporali. L'opera si presenta come una sorta di trama tessile che pervade tutta la tela e pare estendersi al di fuori di questa per invadere lo spazio circostante in una espansione cosmica.

La tramatura della tela non può non ricordarci le “tessiture” di Anil Revni, artista indiano trapiantato a Whashington, le cui opere sono veri e propri merletti di colore che fanno perdere e disperdere l'occhio e la mente in un infinito meditativo.
Il susseguirsi di elementi segnici che si rincorrono all'infinito in Gorgone e si giustappongono gli uni sugli altri in Monrad, fa perdere l'abituale rapporto con lo spazio per perdersi in un groviglio di visioni che spingono la psiche in un mondo onirico e fiabesco.
In entrambi gli artisti il rapporto con l'elemento luce e' tutto interno al colore stesso: nessuna tecnica chiaroscurale, nessun inserimento di luce proveniente dall'esterno, nessun taglio di luce giustapposto; la luce e' data direttamente dal colore stesso; luce come derivazione diretta del colore, come “anima” del colore, luminosità intrinseca al colore che si spande e si espande insieme al segno in una sorta di vortice labirintico in cui perdersi.
Il labirinto segnico della Monrad rimanda irrimediabilmente alle tramature dei “polka dots' di Yayoi Kusama ( le sue opere Infinity Net del 1965, The Sea in Summer del 1988 e Flame del 1992 rendono il confronto), ma qui non vi e' nulla di ossessionante; nessuna ossessione e nessuna allucinazione perseguitano l'artista ; piuttosto un dolce lasciarsi andare in un labirinto segnico ed emozionale in termini evocativi della propria storia individuale.
Ma a veder bene in entrambi gli artisti il segno non e' solo evocativo di inconsci personali, ma piuttosto si rapporta alla ricerca interiore di propri archetipi individuali, ricerca che ciascun uomo fa della propria individualità e quindi ricerca universale che tutta l'umanità' condivide.


5.2 Cynthia Penna, presentation of the exhibition “Signes…Coleurs” with Jorunn Monrad and Bruno Gorgone, presented at the Ambasade du Tourisme, Saint-Tropez (2008)

SIGNES………COULEURS

The sign is the primitive form of representation and communication used by Man, consequently since the beginning of time Man has entrusted to the sign the expression not only of the reality that surrounds him as experience of reality, but also the manifestation of his emotions, of his interiority, his dreams, his memory.
In this context is inserted the painting experience of the two Italian artists Bruno Gorgone and Jorunn Monrad.
The former, architect and designer, from the initially rigorously scientific education of the architecture studies, has then evolved towards an artistic expression of an intimist matrix that is solved in a true emotional planning of the work.
The latter, Norwegian of origin, has lived in Italy for about 20 years and here has developed her educational itinerary at the Fine Arts Academy of Milan, orienting herself towards a sign-related and symbolic abstraction that takes the form of a kind of web of the canvas through various levels of color.

In both the sign is not pure graphic rendition, but in it is intrinsic and inseparably linked to the color that is the other important element of their way of expression.
Consequently, sign and color, the two load-bearing elements of the artistic research, also becomes the fundamental theme of this exhibition.
From the words of Jorunn Monrad:

“My works are rooted in an imagery from my childhood: the snakes of the wooden sculptures of Viking and medieval Norwegian art, the forms that were created by nature, like branches, clouds, forms of branches. The fables, the mysterious nature has also played a part. I have also done research on phenomena that are triggered by the imagery, one may say biological, on which precisely the visions of forms that repeat themselves during falling asleep and waking up can create this kind of visual effects. From this I have obtained a kind of module, that is a kind of biomorphic form, rather than one specific animal or other, that is merely the building brick of the structure, but that is multiplied in forms that are vertiginous and sometimes perhaps unsettling. The idea is to create a dreamy, moving atmosphere, that is nevertheless very different from the effects of op art, in short a less clashing, more “natural” effect. And we cannot but think that in these canvases one breathes the same atmosphere that permeates those of the great Indian master, naturalized American, Natvar Bhavsar like Aarakh VIII and Aarakh IX of 2003.
To Gorgone the reproduction of vague biomorphic motifs does not lead to infantile dreamy reminiscences, but is expression of a planning lent to fantasy or vice versa: a repeated module, result of a planning, one may venture, almost architectural of the “scene”, on which is grafted the variable, “gone crazy”, of the imagination rendered through an unreal and fantastic color, inspired by Matisse and of disruptive force.
The composition of Gorgone irremediably evokes the sign/color of Matissian memory, of the Matisse of the “gouaches decoupées” from the years from 1947 to 1953, biomorphic compositions made of signs and colors, but also certain “inventions” of the futurist and floreal Balla in which there is more geometric construction and coloristic experimentation, than research of movement.
It is interesting to experiment the relationship between space and light in the two masters: in both the space appears destructured and the relationship with it is decontextualized in terms of space and time. The work appears like a kind of textile web that permeates the entire canvas and appears to extend itself beyond it to invade the space around it, in a cosmic expansion.
The web of the canvas cannot but remind of the “weavings” of Anil Revni, Indian artist who now lives in Washington , whose works are true lacework of color that makes the eye and the mind get dispersed in a meditative infinite.
The sequence of sign elements that chase one another infinitely in Gorgone and are juxtaposed one on top of another in Monrad, makes lose the habitual relationship with space to get lost in a tangle of visions that drive the psyche in a dreamlike and fairy-tale world.

In both artists the relationship with the element of light is all centered on the color itself: no technique of chiaroscuro, no insertion of light from the exterior, no cut of juxtaposed light: light is created directly by the color itself; light as direct derivation of the color, like “spirit” of the color, intrinsic luminosity of the color that is extended and expanded together with the sign in a kind of labyrinthine vortex in which to get lost.
The signic labyrinth of Monrad inevitably evoke the webs of the “polka dots” of Yayoi Kusama (her works Infinity Net from 1965, The Sea in Summer from 1988 and Flame from 1992 serve for purposes of comparison) but here there is nothing obsessive, no obsession and no hallucination pursued by the artist; rather, a gentle letting oneself get lost in a sign-related and emotional labyrinth in terms of evocative of the artist's own individual history.

But a careful analysis reveals that in both artists the sign is not just evocation of personal unconscious, but rather it relates to an interior research for own individual archetypes, a research that every person makes of his own individuality and thus universal research shared by all humanity.



6.1 Paolo Donini, presentazione della mostra collettiva “Love” tenuta nel Palazzo Ducale di Pavullo nel Frignano, pubblicato nel catalogo della mostra, 2008

Proprio in quanto frammenti “visivi” le opere riunite in galleria vi compaiono come sorta di reperti contemporanei, effetti personali epocali, emblemi di sensitività sensualità, senso e significato presenti e dispersi fra i nostri stessi giorni. (…) Queste opere, non sono qui per essere tematizzate al di fuori del visivo, in quanto frammenti “visivi” hanno ricevuto dall'essere in mostra l'ambizione di raccontare visivamente “qualcosa” che ci riguarda e che è, sostanzialmente, reale, in quanto depositato nella “res” che l'opera propriamente “è”. La responsabilità autoriale dei curatori è da ricercarsi quindi nell'avere riunito queste disperse forme e, con l'allestimento, nell'averle fatte dialogare in una sintassi. Non si trattava solo di ricercare un “campione significativo” di opere contemporanee che riguardassero l'amore ma di sperimentare se esse potevano costruire, grazie a una sintassi curatoriale implicita al progetto espositivo, un discorso amoroso per frammenti. (…) La sala mima l'atmosfera della camera di un giovane, il primo luogo privato e personale, dove si pensa e si sogna qualcosa, qualcuno. Gli “ami” amorosi di Antonio Noica evocano scatoline, libretti, diari, nascondendo nell'ironia il gancio tragico del legame sintetizzato nella scultura verbo visuale Amo in rete. Il dittico love di Guido Scarabottolo, come un poster appeso, mentre la pittura fucsia, optical, di Due cuori nascosti della norvegese Jorunn Monrad invita a ricercare la forma del cuore sulla tela vertiginosa e labirintica, metafora della ricerca dell'altro.

6.2 Paolo Donini, presentation of the group exhibition “Love” at the Palazzo Ducale of Pavullo nel Frignano, published in the relative catalogue, 2008

Precisely by virtue of being “visual” fragments, the works gathered in the gallery appear like some kind of contemporary finds, epochal personal belongings, emblems of sensitivity, sensuality, sense and significance, present and scattered among our days. (…) These works are not here for a thematic analysis beyond the visual, as “visual” fragments they have received, from the fact of being on show, the ambition to tell a visual tale about “something” which concerns us and which is, essentially, real in that it is part of the “res” that the work “is”, in the strict sense. The creative responsibility of the curators therefore consists of having united these scattered forms and, with the exhibition design, of having made them dialogue in a syntax. It was not just a matter of researching a “significant cross-section” of contemporary works which concerned love, but to experiment how they could construct, thanks to a curatorial syntax which was implicit in the exhibition project, a loving discourse by fragments. (...)
The room mimics the atmosphere of the room of a youth, the first private and personal place, where one thinks and dreams about something, somebody. The loving “hooks” of Antonio Noica evoke small boxes, books, diaries, concealing in the irony the tragic hook of the bond summarized in the visual verb-sculpture “Amo in rete”. The diptych “love” by Guido Scarabottolo, like a poster hung on the wall, while the fuchsia, optical painting of “Two hidden hearts” by Norwegian Jorunn Monrad invites us to search for the form of the heart on the dizzying and labyrinthine canvas, a metaphor of the search for the other.